Teodorico Pedrini C.M.
Fermo 30.6.1671
Beijing 10.12.1746

 

 

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Teodorico Pedrini

SON MANDATO À CINA, À CINA VADO

Lettere dalla Missione 1702-1744

a cura di
Fabio G. Galeffi e Gabriele Tarsetti
Prefazione di Francesco D’Arelli

Ediz. QUODLIBET 

 

 

 

La lettera a Clemente XI del 1714

 

 

Pur essendo le lettere qui trascritte selezionate sulla base della loro collocazione in due distinti Archivi, si è ritenuto di aggiungere tuttavia, tra le centinaia ritrovate, una sola lettera, per il suo enorme valore storico e documentale, sia nella definizione della figura di Pedrini, sia nella descrizione del delicato momento che la missione di Cina stava vivendo pochi anni dopo il suo arrivo.

Si tratta della lettera che Pedrini scrisse il 20 ottobre 1714 a papa Clemente XI, Giovanni Francesco Albani (1649-1721): il papa urbinate, con cui sicuramente c’era stata conoscenza diretta per le comuni frequentazioni del Collegio Piceno, della Casa della Missione di Monte Citorio, dell’Accademia dell’Arcadia (Albani era affiliato con il nome di Alnano Melleo) e del salotto del cardinale Ottoboni, negli anni che avevano preceduto l’ascesa al soglio di Pietro di Albani e la partenza per la Cina di Pedrini.

Il 1714 fu un anno cruciale per la vita di Pedrini e per il suo ruolo a corte. Era arrivato a Pechino soltanto tre anni prima, e immediatamente l’imperatore lo aveva messo al lavoro come musicista di corte, come insegnante dei suoi figli e di alti dignitari, gli aveva chiesto lumi sulla teoria musicale europea, e gli aveva ordinato di proseguire il lavoro di Tomás Pereira e completare il trattato musicale LülüZhèngyì-Xùbiān, che egli dice essere quasi completato al momento di scrivere questa lettera.

Ma con altrettanta sollecitudine Kangxi aveva voluto sapere le sue posizioni sul tema dei riti cinesi, e soprattutto le novità provenienti da Roma su questo argomento. Pedrini allora decise di illustrargli i contenuti dei decreti già emessi dalla Santa Sede fino a quel momento, in particolare il Cum Deus optimus del 1704. La cosa avvenne non senza qualche titubanza da parte di Pedrini, come riferisce il procuratore di Propaganda Giuseppe Cerù, che stava in quel periodo a Canton: «essendosi detto signor Pedrini ritrovato à solo in una occasione con Sua Maestà, questi gli domandò, che nuove haveva di Roma, circa li Riti Cinesi; e mostrando il signor Pedrini di non voler parlare, per timore di non disgustare Sua Maestà, questa con molta affabilità gli disse, che parlasse pur liberamente e non averne timore § All’ora il signor Pedrini preso animo, gli disse, che già Sua Santità haveva fatto il Decreto, concernente tali Riti, e gli spiegò tutto il suo contenuto. L’Imperatore inteso ciò, non si prese fastidio nessuno, anzi ne mostrò molto gusto, massimamente havendo saputo, che Sua Santità permetteva in alcuna maniera nel suo Decreto, le tavolette de Defonti, con la protesta, e dichiarazione al lato di quelle § Et ordinò segretamente al suddetto signor Pedrini che scrivesse da sua parte una lettera a Sua Santità, come infatti fece, e si mandò da noi per mezzo dell’ultima nave inglese, partita da Cantone alli 7 Gennaio 1715» (Giuseppe Cerù, Notizie di Cina dell’anno 1714, Archivio Fondazione Cini, Venezia, ms. 19, Carte Tournon, f. 9615, n. 50). Dopo questo significativo passaggio, Cerù continua: «Sin ad hora l’Imperatore non aveva mai saputo nulla di fisso circa di queste cose, non havendo li Padri della Compagnia voluto dirgli mai nulla, per loro fini particolari, che ciascheduno può facilmente imaginarsi».

In quell’autunno “caldo” del 1714 le lettere di Pedrini al papa furono almeno due.

La vicenda della seconda lettera del 9 dicembre si sviluppò tra molte traversie a partire dal 28 novembre, ed è descritta con dovizia di particolari, unitamente alle trascrizioni delle varie versioni, nel diario di Matteo Ripa, pubblicato e commentato dal professor Michele Fatica (Giornale, 1705-1724 cit., vol. II, nel testo di Matteo Ripa alle pp. 142-162 e in sezione Documenti, pp. 290-340), a cui si rimanda, e in Mémoires cit., vol. V, 1865, pp. 193-223; mentre la Relazione di Matteo Ripa su quei fatti (in APF, SRC-IOC, vol. 13) fu pubblicata anche dal Platel, Mémoires historiques cit., vol. VII, pp. 269-277. Basti solo qui ricordare che la prima versione del 28 novembre scritta in cinese da Pedrini e Ripa, dopo alcune piccole correzioni attuate del mandarino Wang Daohua, venne approvata da Kangxi, il 1° dicembre, insieme alla traduzione in italiano curata ugualmente dai due missionari propagandisti; così come ci racconta lo stesso Ripa nella sua fede giurata trascritta supra (MH 18, p. 393, e p. 394, nota 6). Dopodiché lo stesso pomeriggio, la traduzione in italiano venne sottoposta anche al gesuita Giuseppe Baudino, che ne confermò la correttezza. Ma quando quel testo, il giorno 2 dicembre arrivò sotto gli occhi di Kilian Stumpf, iniziarono i problemi, le rettifiche e le discussioni tra i missionari, fino alla versione definitiva, emendata dai Gesuiti, del 9 dicembre (le diverse versioni della lettera, sottoscritte dai soli Gesuiti o anche da Ripa e Pedrini, sono conservate in duplice copia in ASV, F. A., vol. 255; un altro esemplare, firmato soltanto dai Gesuiti, si trova in ACGOFM, MH, 3-8).

Tutta la vicenda di quei giorni venne narrata da Pedrini stesso nella sua lunga Relazione d’una lettera scritta dal Sr. Pedrini per ordine dell’Imp.re di Cina alla Santità di N. S. Papa Clemente XI l’anno 1714, conservata in ASV (F. A., vol. 255, ff. 298r-322r, e copia in B. CAS., ms. 1652), oltre che nella sua versione del Memoriale del 1715 (pubblicato supra, ACMR 15, p. 77, e ACMR 16, p. 95) e sintetizzata anche nella sua del 1727 al cardinale Gualterio: «Con tutto ciò tanto fecero, che in luogo di ringraziare l’Imperatore che la Missione già restava aggiustata, mutarono per mezzo delle falsità del Mandarino Ciaociang tutta la lettera» (cfr. supra, ACMR 37, p. 243). Due documenti di quei giorni sono pubblicati anche da Sisto Rosso (Apostolic Legations to China of the Eighteenth Century cit., pp. 295-302), ma solo nella versione “corretta”.

Prima di sottoporre la lettera all’imperatore, al mandarino Wang Dao, e probabilmente allo stesso suo amico Ripa, Pedrini ne scrisse («senza darne conto ad alcuno», come dice Michele Fatica) a Clemente XI già il 20 ottobre, anticipando i contenuti di quello che avrebbe dovuto essere il “testo ufficiale” proposto a Kangxi («onde hò scritto la presente, che darò à vedere à Sua Maestà»), forse perché già presentiva i problemi che sarebbero sorti nel caso i padri della Compagnia fossero venuti a conoscenza di questo testo («mà perchè non sò se avrò occasione commoda di fargliela vedere senza che nessun’Europeo lo sappia»).

E infatti i problemi sorsero numerosi.

Già durante le accese discussioni avute in quei giorni di fuoco, racconta Pedrini nella sua Relazione sopra citata, si registrò una allarmata dichiarazione del visitatore dei Gesuiti Gian Paolo Gozani (1659-1732): «Anzi il P. Gian Paolo Gozani vedendo, ch’il Signor Pedrini nella lettera à Sua Santità, della quale si parlerà più a basso, riferiva come avendo esposto all’Imperatore le determinazioni di Sua Santità, l’Imperatore non se ne era punto offeso, disse con gran ponderazione, che questa lettera era bastante à far distruggere la Compagnia», a testimonianza di quanto fossero temute le descrizioni che Pedrini offriva alla curia romana di quanto stava accadendo a Pechino.

Che sia stata una “voce dal sen fuggita” o un amaro presentimento, il riferimento di Gozani può essere comunque interpretato come la consapevolezza che le informazioni che Pedrini stava inviando a Roma con questa e altre lettere, avrebbero potuto compromettere, se non demolire tout court, la lunga e paziente opera di edificazione della egemonia politica, culturale e religiosa che i Gesuiti avevano intessuto in Cina nei centi anni che erano trascorsi dalla morte di Matteo Ricci; egemonia che era costruita sul monopolio dei contatti religiosi, diplomatici e finanche linguistici tra i vertici della società cinese e quelli delle nazioni europee, ivi compresa la Chiesa, e che era consapevolmente fondata – almeno nella chiave di lettura offerta da Pedrini – anche sulla selezione degli ingressi dei missionari occidentali sulla base della discriminante dei riti controversi: cioè la diffusione dell’idea secondo cui l’imperatore di Cina non permetteva l’ingresso ai missionari che non condividevano la cosidetta “prassi ricciana”. Nel momento in cui a Roma avesse dovuto farsi strada la consapevolezza che così non era, la barriera che avevano eretto (una sorta di check-point dottrinale – per usare una immagine contemporanea – o presunto tale) sarebbe caduta immediatamente, trascinandosi dietro “il figlio prediletto”, come veniva chiamata dai Gesuiti la missione di Cina, e forse anche la Compagnia stessa, come presagiva Gozani.

È chiaro che questo timore dei Gesuiti nei confronti dei pericoli provenienti dagli scritti di Pedrini era fondato anche sulla totale identificazione della missione di Cina con l’azione della Compagnia, parallelismo su cui Pedrini avrebbe ulteriormente avuto, come di fatto ebbe, molto da ridire.

Per questi motivi Gozani, nella sua qualità di superiore dei Gesuiti di Cina, non poteva tollerare che Pedrini inviasse queste lettere a Roma. E alla luce di questo appare ben più chiara la frase con cui si apre la Relazione della Prigionia del 1721 (cfr. supra, ACMR 33, p. 217): «Il fine della prigionia del Signor Pedrini, non è altro, se non di metterlo in stato di non poter scrivere à Roma».

Inoltre nei mesi successivi, dopo aver inviato a Roma la lunga Relazione citata su quanto era accaduto a Pechino in quell’autunno 1714, Pedrini decise di informare anche lo stesso Kangxi sulla condotta tenuta dai Gesuiti e le macchinazioni del mandarino Zhao Chang in quei giorni, e da questo ineludibile desiderio nacque la Memoria del 1715, che egli chiese all’imperatore di tenere strettamente riservata.

Ma l’imperatore abbandonò la sua riservatezza un anno dopo, allorché l’arrivo della Costituzione Ex illa die a Pechino (agosto 1716) impedì ai Gesuiti di continuare a negare l’esistenza dei decreti papali e costrinse il portoghese Mourão a comunicare a Kangxi (23 settembre) l’esistenza di quell’importante documento. Fu allora che Kangxi scrisse il famoso Red Manifesto (31 ottobre; vedi supra, Documentazione iconografica, pp. lxxviii-lxxix, e ACMR 32, p. 214, nota 9), facendolo firmare a tutti i missionari di corte, fra cui anche Ripa e Pedrini, ponendo così un punto fermo in quella che a lui sembrava ormai una pantomima poco comprensibile. E pochi giorni dopo rivelò il Memoriale di Pedrini (come narrato in nota a margine dei documenti supra, ACMR 15, 16 e 17, pp. 77, 95, 117) cui seguì anche una breve prigionia per il missionario fermano, durata soltanto una settimana.

Ma queste accuse lo perseguitarono per molti anni, se è vero che ancora durante la legazione Mezzabarba divennero uno degli argomenti del Diarium Mandarinorum (20 febbraio 1721) che Pedrini, anche per questo motivo, si rifiutò di sottoscrivere, procurandosi così «le bastonate Cinesi, e delle Prigioni de’ Giesuiti » (cfr. la lettera al fratello Eraclito del 31 ottobre 1724, supra, ACMR 35, p. 239).

Oltre alle conseguenze qui sommariamente descritte, ma ben presenti nella storiografia sulla missione, questa lettera fu anche oggetto di una ulteriore accusa mossa nei confronti Pedrini, che ha avuto molti sostenitori sia all’epoca che in tempi successivi: quella di avere provocato o ispirato l’emanazione della stessa Costituzione Ex illa die, presentando a Roma un imperatore Kangxi abbastanza disponibile a tollerare quelle proibizioni. Di questo tipo di accusa, e della incompatibilità cronologica tra i due fatti, si è già detto in riferimento al biglietto al prefetto di Propaganda Fide attribuito a Pedrini (cfr. supra, ACMR 18, p. 121, nota 2), e alla fede giurata di Matteo Ripa del 4 novembre 1718 (cfr. supra, MH 3, p. 324, al punto 12). Inoltre Pedrini stesso ebbe modo di sottolineare come l’oggetto delle sue informative all’imperatore erano i punti già contenuti nella Costituzione Cum Deus optimus, che non era certo meno autorevole della Ex illa die, se non dal punto di vista formale-giuridico, sicuramente da quello sostanziale, essendo stata il presupposto per tutti i successivi decreti papali in materia.

Di questa lettera dà notizia Michele Fatica, nella sua edizione critica del Giornale di Matteo Ripa (cit., vol. II, p. 290).

 

 

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